Alle elementari andavo a scuola da solo. E anche alla messa.
Vivevo in un villaggio sul Po affondato nell’afa o nella nebbia. D’inverno la brina ghiacciata o la neve ingrigivano per mesi i campi e le fosse. Mentre eterne stalattiti colavano dalle grondaie improvvisate di case e fienili.
C’era ancora buio quando m’incamminavo per andare alla messa delle sei. Il vecchio arciprete neniava in latino, l’altare girava il culo alle poche fedeli annerite, e io, unico chierichetto, mi davo da fare col libro, le ampolle e la campanella da suonare durante il sofferto offertorio.
Poi, sempre da solo, tornavo a casa, ingoiavo appiccicato all’unica stufa un po’ di pane biscottato pocciato nel latte, prima di andare, sempre da solo, verso la scuola elementare.
Anche i miei compagni venivano a scuola da soli, a piedi o con qualche decrepita bici. Solo il figlio del segretario comunale e i figli dei signori Scaravoni erano accompagnati dalle altere e solitarie mamme.
Noi monelli arrivavamo quasi tutti in anticipo un bel po’, così si giocava a figurine, ci si azzuffava più o meno per davvero, si bulleggiava o si scontava in qualche anfratto del cortile inadatte timidezze. Poi suonava la campanella e come d’incanto le varie nuvole vocianti suddivise per età s’infilavano addestrate fra i banchini di formica verdolina perfettamente allineati e coperti.
Al suono dell’ultima campana gli sciami di monelli si ricomponevano chiassosi nel cortile. Ma quasi nessuno aveva fretta di rientrare, così si giocava a figurine, ci si azzuffava più o meno per davvero, , fatto magari col maglione appallottolato di qualche compagno angariato.
Poi, sempre da solo, tornavo a casa, per ingoiare appiccicato all’unica stufa un po’ di minestrina fatta col dado Star e una qualche fetta di pane su cui spalmavo un po’ di formaggino Mio. Poi facevo i compiti in fretta coi piedi appoggiati sulla sportella aperta del forno della stufa, prima di guadagnare di nuovo la libertà dei giochi in strada, o sul fienile dei vicini, o all’oratorio.